
LE JARDIN D’HIVER
Avevamo in giardino un albero di fichi. Bello, alto, carico di frutti quando era il momento.
Quando devi scrivere un testo sul lavoro di un’artista, ci metti un sacco di tempo perché pensi a come non rendere noiose e banali tanto le parole che stai scrivendo, quanto le opere che descrivi. Come sempre accade, più ci pensi e più spuntano sullo schermo
mucchi di lettere soporifere e insignificanti. Poi però arrivi alla soluzione. Se la forza dei lavori di Elisa è quella di raccontare storie senza l’uso delle parole, allora, per descriverli, devi usare la lingua scritta non per un esercizio di citazionismo da manuale di storia
dell’arte, ma per raccontare un’altra storia. Magari una che sembra uscire da un suo disegno.
Quindi, eccovi la storia.
Avevamo in giardino un albero di fichi. Bello, alto, carico di frutti quando era il momento. Un giorno mio nonno decise di allargare il capanno degli attrezzi e lo tagliò. Non aveva annunciato l’intenzione a nessuno quindi un bel giorno sentimmo il rumore della motosega e un tonfo. Il tempo di affacciarci dal balcone ed era già tutto finito. Ci furono lamentele, qualcuno (mia sorella), senza sapere bene di cosa si occupassero, minacciò di chiamare il WWF e la Lipu. Un’ora dopo le proteste, le minacce e con loro l’albero, erano già state sigillate sotto terra da una pietra tombale a presa rapida. Per i mesi successivi nessuno parlò più dell’accaduto finché un giorno di maggio vedemmo che c’eravamo sbagliati.
Il cemento aveva messo fine solo alle discussioni, l’albero, invece, era vivo e stava rispuntando da sotto il capanno. All’inizio era un misero rametto dall’aspetto inquietante. Usciva tra cemento e terra come il dito di qualcuno sepolto in stile mafioso nella gettata delle fondamenta o di uno zombie di ritorno al mondo dei vivi. Comunque sia, di lì a poco avrebbe cominciato a rovinare con la sua crescita i muri e il battuto del pavimento. Per non mandare all’aria un lavoro appena fatto, l’idea più logica sarebbe stata tagliarlo nuovamente quando era piccolo, con un paio di comode cesoie da giardinaggio. Questa volta ne parlammo in tempo con mio nonno che ci ascoltò e decidemmo insieme che se l’albero aveva avuto la forza di rinascere allora si meritava di crescere finché ne avesse avuto voglia. Così l’albero torno a essere grande e il capanno degli attrezzi piccolo. Ecco, guardando le opere di Elisa mi torna sempre in mente questo aneddoto perché i temi di cui parla nei suoi lavori sono, in fondo, gli stessi che vengono affrontati nella storiella appena raccontata. Parlano della forza del seme, delle radici, del germogliare e della relazione tra uomo e natura, tra uomo e donna e anche di quella che l’uomo ha con se stesso. Sono riflessioni semplici ma troppo spesso dimenticate portate avanti con un tratto esile quanto potente e capace di arrivare al cuore senza tante parole, anzi senza alcuna parola.